La memoria dei sommersi: la storia del cilentano Codrado Occhiati
Questa volta voglio raccontarvi la storia di un giovane castellabatese, Codrado Occhiati, deportato come prigioniero politico nei campi di concentramento di Dachau e Mauthausen e morto nel Castello di Hartheim nel 1944, quando aveva solo 29 anni.
Esiste la storia. Quella che ci mette di fronte alla più cruda realtà e ci impone il dovere di ricordare, di conservare nella memoria collettiva l’orrore della Shoah e le conseguenze che essa ha avuto nella vita delle persone sopravvissute e delle generazioni successive, che ancora oggi devono fare i conti con un passato che serpeggia – per usare le parole di Primo Levi – e che si manifesta attraverso altre forme di oppressione ugualmente crudeli e deumanizzanti.
Una storia che deve resistere ai tentativi di negazionismo[1] e di mistificazione di fatti storici realmente accaduti che, in linea con gli avvenimenti attuali – pensiamo alla pandemia di Covid-19 ma si potrebbero fare molti altri esempi – vengono messe in discussione da chi, con una visione complottista della realtà, intende perpetuare posizioni antisemite e minare i valori e i principi democratici.
E poi esistono le storie, quelle di ogni singola persona messa di fronte al più grave crimine compiuto contro l’umanità, che non ha precedenti storici. Ci sono le storie di coloro che per loro prevaricazione o abilità o fortuna non hanno toccato il fondo e sono tornati per testimoniare. Sono i “sopravvissuti”, come li chiama Levi ne I sommersi e i salvati, i quali hanno impiegato anni, forse una vita, per rielaborare il dramma e i traumi vissuti e riuscire a tradurli in parole. E ci sono quelle di coloro che hanno visto la Gorgone, i “sommersi”, i “testimoni integrali”, quelli che non sono tornati per raccontare o sono tornati muti perché non hanno avuto la forza di rivivere quei ricordi una seconda volta. Quella che sto per farvi conoscere è una di queste.
Ricostruire la vita, soprattutto a livello locale, di chi è stato protagonista di simili vicende non è semplice. C’è bisogno di un lungo lavoro di ricerca[2] e di documentazione a partire dai luoghi che le persone deportate hanno attraversato, recuperare informazioni biografiche e dati conservati negli archivi. Per questo motivo la storia di Occhiati mi ha incuriosita e mi ha spinto a conoscerla in maniera più approfondita, a condividerla con i lettori e le lettrici di questo giornale per riconsegnare alla comunità locale un pezzo di storia di un giovane uomo che ha conosciuto una doppia cancellazione dell’identità: quella avvenuta nei lager nazisti e l’oblio legato alla memoria delle sue vicende di vita.
Codrado Occhiati nacque a Castellabate il 3 dicembre 1915, pochi mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia che, a partire da maggio dello stesso anno, stava combattendo contro l’Impero Austro-Ungarico sul fronte dell’Isonzo. Codrado visse in una famiglia numerosa, composta da molti fratelli e sorelle, alcuni dei quali venuti a mancare in tenera età. Il padre, Basilio Occhiati, musicante della Banda Musicale di Castellabate, si sposò nei primi anni del Novecento con Carolina Izzo, giovane donna di Santa Maria e poco dopo, nel 1906, emigrò per l’America, diretto a New York. La sua permanenza oltreoceano gli impedì di arruolarsi nell’esercito per prendere parte alla guerra, come accadde a tanti altri uomini emigrati e impossibilitati a fare ritorno in patria a causa degli attacchi in mare da parte delle truppe tedesche.
Il Cilento è stato da sempre – ed è tuttora – terra di emigrazione verso le Americhe, in particolare Stati Uniti e Brasile, verso cui si partiva in cerca di lavoro e con la speranza di migliori opportunità di vita. Le attività di cui si viveva in questo territorio erano prevalentemente agricole e legate alla pesca e alle persone meno privilegiate non sempre garantivano una sicurezza economica, così molti abitanti erano costretti ad emigrare altrove per risollevare le proprie finanze. Basilio Occhiati, infatti, quando fece ritorno a Castellabate, intorno al 1910-1911, aprì una pensione che accoglieva lavoratori e turisti, che per motivi diversi dovevano soggiornare a Castellabate. A ciò si aggiungeva il sostegno, anche economico, del nonno Giuseppe Occhiati, commerciante e proprietario di alcuni negozi. Codrado e i suoi fratelli vissero un’infanzia, che per quanto all’epoca possa dirsi spensierata, trascorreva comunque serena, durante la quale non dovette subire la perdita, come in altre famiglie, di padri o fratelli caduti al fronte o emigrati in terre lontane.
Trascorse la sua giovinezza in un territorio rurale che sembrava immune agli avvenimenti bellici esterni, ma che ben presto conobbe l’avvento del regime fascista. Codrado fece parte delle formazioni che addestravano i giovani alla guerra e li educavano alla dottrina fascista in modo che aderissero in massa alla cultura del regime. Frequentò le Regie Scuole Elementari ed ebbe la possibilità di iscriversi al Regio Liceo Ginnasio di Salerno; i fratelli, invece, frequentarono la Scuola di Avviamento Professionale e alle sorelle spettava il compito di sposarsi e dedicarsi alla famiglia.
Nel 1935, appena ventenne, dopo aver superato i requisiti relativi agli obblighi di leva, decise di arruolarsi di sua volontà nell’Arma dei Carabinieri Reali, con la speranza di proseguire gli studi universitari a cui aspirava da sempre. Nell’anno successivo divenne, infatti, “carabiniere a piedi” e fu assegnato per qualche anno alla Legione Territoriale di Milano. Qui Codrado manifestò un atteggiamento di insubordinazione verso il sistema militare e venne incarcerato per diversi mesi. In seguito fu espulso dall’Arma dei Carabinieri e invitato a tenersi pronto per un’eventuale chiamata alle armi. Nel frattempo Codrado proseguì gli studi per la tanto agognata laurea e questo, probabilmente, contribuì alla formazione di un pensiero critico verso il regime fascista. La chiamata in guerra arrivò nel 1938 quando entrò nella Brigata Fanteria e venne inviato a Iefren, in Libia, diventata colonia italiana, dove rimase fino alla fine del 1939, anno in cui Mussolini e Hitler firmarono il cosiddetto “Patto d’Acciao” che sanciva l’alleanza fra l’Italia fascista e la Germania nazista. Dopo una pausa di congedo durata veramente poco, il tempo di trascorrere qualche settimana nel Cilento, Occhiati fu costretto a ritornare in Libia nel 1940, anno in cui la Germania proseguiva il suo piano di invasione e annessione dei paesi dell’Est e l’Italia entrava di nuovo in guerra. In seguito alla mancata obbedienza ad un ordine emesso da un ufficiale, Occhiati fu condannato dal Tribunale Militare di Tripoli per il “reato di disobbedienza” e spedito nel ‘43 prima nel Reclusorio di Napoli e successivamente nel carcere militare di Gaeta.
Intanto la guerra proseguiva, l’Italia firmava l’armistizio, Mussolini e Badoglio si rifugiavano in Puglia e gli angloamericani salivano dal Meridione. Fu durante uno dei bombardamenti da parte degli Alleati che il carcere di Gaeta venne sgomberato e i prigionieri trasferiti nel Reclusorio di Pizzighettone, in provincia di Cremona. L’armistizio stipulato nel ‘43 fra l’Italia e gli anglo-americani lasciò il paese privo di direttive, esposto agli attacchi dei tedeschi, diventati nel frattempo nemici. Il Reclusorio in cui erano internati Occhiati e gli altri prigionieri fu raggiunto dai nazisti nel settembre ‘43 e questi deportati nel campo di concentramento di Dachau, nei pressi di Monaco, campo destinato inizialmente all’internamento dei prigionieri di guerra che venivano utilizzati come forza lavoro sia a scopo punitivo che per la produzione bellica. Anche Codrado fu classificato come deportato da impiegare nelle fabbriche e sottoposto a giornate di lavoro massacranti. A Dachau il giovane italiano lasciò intravedere il suo spirito anti-regime e a causa dei suoi discorsi sovversivi contro Hitler e Mussolini fu trasferito pochi mesi dopo come “prigioniero politico” nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria.
Anche qui i deportati erano costretti ai lavori forzati nella vicina cava di granito, collegata al campo centrale da una lunga e ampia scala di pietra, chiamata scala della morte, da cui i prigionieri salivano e scendevano trasportando grossi carichi di massi. I campi di sterminio rappresentarono il culmine di un lungo e graduale processo di discriminazione, ghettizzazione e repressione non soltanto di milioni di ebrei, ma anche di minoranze etniche, come i Rom e i Sinti, di persone disabili, omosessuali, prigionieri politici, prostitute, senza fissa dimora, apolidi e di tutti coloro definiti dai nazisti untermenschen, ovvero sub-umani, vite non degne di essere vissute. Il piano di sterminio di massa, deciso durante la Conferenza di Wannsee nel 1942 e denominato “Soluzione finale della questione ebraica”, era stato organizzato e progettato in maniera efficiente e meticolosa, una vera e propria macchina della morte messa in atto con il silenzio e la complicità di altre nazioni.
L’esperienza dei campi di lavoro e di sterminio minavano le condizioni di salute dei deportati, abbrutiti nel corpo e nell’anima dal lavoro, dal freddo, dalle scarse condizioni igieniche, dalla carenza di cibo e acqua, dalle torture, sevizie e punizioni che subivano quotidianamente. Questi luoghi erano pensati per reprimere sul nascere qualsiasi legame di solidarietà e di interdipendenza tra le persone detenute, una dimensione che ci costituisce in quanto esseri umani.
Se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero scriveva Primo Levi in Se questo è un uomo.
La salute di Occhiati divenne sempre più compromessa, si ammalò di tubercolosi nel settembre ‘44 e fu trasferito nel Castello di Hartheim[3], a nord dell’Austria. Il Castello era situato in una posizione strategica poiché si trovava in un luogo isolato e vicino alla ferrovia. Prima dell’occupazione tedesca era gestito da alcune suore ed era preposto alla cura di bambini con disabilità fisiche e mentali. Durante il regime nazista esso fu teatro del programma di eutanasia varato da Hitler nel 1940 e denominato “Aktion T4”, il quale prevedeva l’eliminazione fisica di persone con malattie genetiche o malformazioni psicofisiche e che, pertanto, ostacolavano il progetto di costruzione della razza ariana.
Dopo l’interruzione del piano Aktion T4, il Castello divenne centro di sterminio dei deportati provenienti dai vicini campi di Dachau, Ravensbrück e Mauthausen. Una parte dei detenuti arrivati ad Hartheim, reputati non idonei al lavoro perché deboli o malati, veniva mandata immediatamente alle camere a gas, mentre altri furono oggetto di crudeli esperimenti medici, che si concludevano comunque con la morte e la cremazione dei corpi. Questo fu probabilmente il destino di Occhiati, malato ma ancora troppo giovane per essere condotto subito alla morte. Il corpo del giovane soldato cilentano, qualunque sia stata la metodologia di morte eseguita, e rispetto alla quale non si hanno fonti certe, fu bruciato nel forno crematorio del Castello di Hartheim, insieme a quello di circa 30 mila prigionieri.
La famiglia e le persone a lui care hanno vissuto gli anni di permanenza di Codrado nei vari campi di sterminio senza avere notizie su dove si trovasse, né hanno avuto in seguito informazioni attendibili sulle circostanze della sua morte, tanto che, solo nel 1961, quest’ultima è stata registrata come “morte presunta” a causa dell’assenza di un corpo e di testimonianze sul suo decesso.
Se ricordare significa conoscere storie rimaste finora inascoltate perché poco raccontate e diffuse, la conoscenza ci deve spingere a non dimenticare, in un esercizio di reciprocità che deve diventare pratica concreta di libertà, rispetto e riconoscimento di tutte le differenze.
Claudia Alfano
[1] https://www.raicultura.it/raicultura/articoli/2022/01/Donatella-Di-Cesare-Contro-il-negazionismo-07891c8d-4ff0-4fd8-b27a-27c6358df2b7.html
[2] Le informazioni sulla storia di Occhiati sono state reperite nel libro “Dal deserto africano al camino di Hartheim. Vita e morte di un deportato italiano nei lager nazisti. Storia di Codrado Occhiati” di Gerardo Severino
[3] http://www.deportati.it/lager/castello-di-hartheim/