Gli antichi mestieri nel Cilento
Nel mondo di oggi tanti mestieri che si facevano un tempo sono scomparsi lasciando il posto a nuove professioni che rispecchiano questa nuova epoca.
I racconti dei nostri genitori, dei nonni e delle generazioni precedenti si popolavano di figure e attività difficili da immaginare ora, che quasi non hanno lasciato traccia grazie al grado di benessere che abbiamo raggiunto con la tecnologia e l’introduzione di nuovi materiali.
Nel Cilento si svolgevano diverse attività per la realizzazione di oggetti che nel tempo sono stati sostituiti da prodotti di fabbrica. Grazie ai ricordi dei miei nonni e genitori ripercorrerò alcuni dei principali mestieri svolti anticamente, piccole descrizioni di cui alcuni di voi avranno sicuramente esperienza diretta.
Oltre ai mestieri praticati regolarmente in bottega, molti altri erano ambulanti. Si girava di casa in casa offrendo vari tipi di prestazioni, grazie alle quali si ricavavano modesti guadagni o beni in natura.
Ad esempio, il mestiere di barbiere era esercitato per lo più in bottega. Non mancavano, però, barbieri ambulanti che si recavano a casa di persone anziane, malate o impossibilitate a muoversi. Il barbiere non si occupava solo del taglio dei capelli ma anche di aggiustare ombrelli o fare salassi agli ammalati di polmonite.
C’erano gli impagliatori (“mpagliasegge”) che rivestivano fiaschi, bottiglie e damigiane o imbottivano di paglia sedie e cuscini.
Un’altra attività tipica delle zone rurali era legata alla realizzazione di cesti di vimini. Molti lavoratori della terra, al ritorno dai campi, si dedicavano all’arte di intrecciare vimini, un’attività relativamente leggera ma comunque remunerativa. I cesti di vimini, infatti, erano d’uso comune prima che si diffondessero i contenitori prodotti industrialmente: venivano utilizzati per la raccolta, il trasporto e la conservazione dei frutti della terra. L’attività di cestaio richiedeva manualità e precisione e consentiva, attraverso una varietà di materiali naturali (giunchi, vimini, castagni, ginestre, tralci di rovo o di salice), di realizzare cesti (“cuofini”), graticci e canestri di varie forme e colori ottenuti intrecciando le materie vegetali dopo averle opportunamente trattate per renderle più flessibili. Oggi l’ultimo cestaio del Cilento si trova ad Omignano.
Tra gli altri mestieri che si svolgevano nel passato ritroviamo “‘u conzapiatti”. Il conciapiatti girava per le campagne per riparare piatti, tegami, vasellame di terracotta o altri manufatti rotti. Quando un oggetto si rompeva veniva subito riparato per poter essere utilizzato ancora per molto tempo perché alcuni utensili erano difficili da reperire e si preferiva ripararli rispetto ad acquistarli nuovi. Le condizioni di povertà spingevano verso la cultura del riciclo e l’arte di arrangiarsi, volte alla riduzione degli sprechi e allo sfruttamento degli oggetti fino a quando erano utilizzabili. Capitava che il conciapiatti si dedicasse anche alla riparazione di ombrelli.
Poi c’era, per l’appunto, “‘u conzambrelli”. Il lavoro di conciaombrelli era esercitato anticamente dai barbieri, i quali si dedicavano anche alla riparazioni di ombrelli rotti. Ma il conciaombrelli ambulante si recava casa per casa per riparare ombrelli che venivano riutilizzati fino all’estremo.
Anche il mestiere di stagnino, denominato in cilentano “‘u conzacauràre”, veniva esercitato a casa dei clienti. Questa figura era molto ricercata perché gli utensili da cucina erano di rame e periodicamente bisognava rinnovare e lucidare i fondi delle pentole. Approfittando dell’occasione si facevano stagnare anche le posate di ferro o si riparavano pentole bucate.
Poi vi era “‘u ramaro”. Il ramaio, con il suo carretto carico di utensili di rame, vendeva porta a porta pentole e stoviglie. Raccattava anche materiali usati e accadeva spesso che la gente barattasse l’oggetto da sostituire con la riduzione del prezzo sul nuovo acquisto. Dopo lunghe negoziazioni e discussioni, acquirente e venditore raggiungevano sempre un accordo.
L’arrivo degli ambulanti era annunciato da una figura oggi dimenticata: il banditore, “‘u iettabanno”. Costui promuoveva, gridando per le vie del paese con una trombetta di latta, le merci in vendita degli ambulanti. Il banditore generalmente era un incaricato del comune impiegato in altre mansioni: spazzino, guardiano del cimitero ecc. ed era addetto alla diffusione pubblica di annunci, bandi o ordinanze che dovevano essere comunicate a tutta la cittadinanza.
“‘U molacurtieddi”, invece, girava per il Cilento per affilare coltelli, forbici e attrezzi da lavoro posizionandoli su una ruota di pietra girevole che veniva azionata manualmente.
Tra gli altri mestieri vi era anche quello di “piattaro”. Costui girava in paese una volta a settimana con un carretto con cui raccattava vecchi utensili, ferraglia, stracci e indumenti usati. Le persone appena sentivano arrivare il piattaro lasciavano davanti alla porta cesti con materiale vecchio e questi offriva in cambio i primi recipienti e tinozze di plastica oppure tazze, bicchieri e piatti.
Un tempo le scope erano realizzate con le “cernicchiare”, ovvero con le tagliamani, una pianta che cresce spontanea nella vegetazione cilentana. Sempre con le tagliamani si creavano i cosiddetti “libbàni”, corde intrecciate acquistate soprattutto da commercianti pugliesi che le utilizzavano nei vivai di cozze.
Un compito antico dei falegnami era la costruzione delle bare attraverso tavole inchiodate di legno grezzo non colorate, non incise né decorate.
Alcune donne cilentane, giovani e adulte, le “ngullettatrici”, si dedicavano alla lavorazione dei fichi secchi, prodotto tipico del nostro territorio che veniva esportato anche all’estero.
Quando l’energia elettrica non era ancora arrivata nelle case e nelle strade “‘u lanternaro”, munito di una lunga asta con all’estremità materiale infiammabile, si occupava di accendere di sera le luci dei lampioni a gas o ad olio e ripassava all’alba per spegnerle.
Alcuni di questi mestieri si tramandavano di generazione in generazione ma oggi quasi tutti sono scomparsi rimanendo impressi nella memoria del nostro passato.
Claudia Alfano