Ipazia d’Alessandria: donna sapiente, uccisa dal fanatismo religioso
Ipazia è stata una matematica, astronoma e filosofa greca. Nacque ad Alessandria d’Egitto, alcuni decenni prima che questa città diventasse parte del nuovo Impero Romano d’Oriente, nella seconda metà del IV secolo. Non è possibile stabilire con esattezza l’anno della sua nascita: da alcune testimonianze presenti in opere che parlano di lei ma anche facendo riferimento agli studi di matematica da lei condotti, si può stabilire come intervallo di anni più probabile per la sua nascita quello compreso fra il 350 e il 360.
Non ci sono arrivate le opere scritte da Ipazia: possiamo ricostruire la sua vita e i suoi studi attraverso testimonianze di altri scrittori suoi contemporanei o vissuti successivamente.
Ipazia crebbe nel colto ambiente alessandrino. Ricevette una raffinata istruzione dal padre Teone, matematico e astronomo, direttore del Museo di Alessandria, luogo d’incontro tra dotti e anche d’ insegnamento, che rappresentò per secoli la massima istituzione culturale del mondo ellenistico. Approfondì i suoi studi ad Alessandria ma anche ad Atene e in Italia.
Non si hanno notizie sulla madre. Il suo allievo Sinesio, nelle lettere scritte alla maestra, invia saluti ai componenti della famiglia ma non fa il nome della madre. Questo fa pensare che Ipazia abbia perso la madre già nel 402. Ebbe un fratello di nome Epifanio a cui il padre Teone dedicò alcune opere. Probabilmente ebbe anche un altro fratello di nome Atanasio di cui Sinesio parla in altre lettere.
Alla morte del padre Teone, Ipazia, a 31 anni, ne ereditò il posto presso il Museo. Nei documenti che ci sono pervenuti è descritta come una donna bellissima e affascinante ma sembra che non si sia sposata.
Nonostante vivesse in un’epoca in cui le donne venivano considerate esseri inferiori, Ipazia divenne così celebre per la sua cultura filosofica che molti affrontavano lunghi viaggi per ascoltare le sue lezioni: era molto ammirata, amata e rispettata. Anche i capi della città si rivolgevano a lei per consigli. Si racconta che, avvolta in un mantello blu e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente, a chiunque volesse ascoltarla, il pensiero dei filosofi più famosi del periodo.
La vita di Ipazia si concluse tragicamente nel marzo del 415, vittima delle persecuzioni cristiane contro i rappresentanti della scienza ellenistica, che proponevano idee che poco si conciliavano con la religione che si andava affermando. Teofilo, vescovo di Alessandria, aveva ordinato la distruzione dei templi pagani nella città e voleva distruggere anche la cultura che i riti pagani portavano con sé. Insegnare per le strade, probabilmente, era anche un modo per difendere e diffondere quella cultura che rischiava di essere annientata. Quando Cirillo divenne vescovo di Alessandria, succedendo a Teofilo, prese a ingerirsi sempre più nella gestione della città, entrando così in conflitto con Oreste che allora era il prefetto di Alessandria.
Ci fu un periodo di forti contrasti tra cristiani ed ebrei. Nel pieno del conflitto tra il prefetto e il vescovo, dalle colline della Nitria, località prossima ad Alessandria, intervennero a sostegno di Cirillo un gran numero di monaci, i cosiddetti parabolani. Dicevano fossero degli infermieri, ma di fatto costituivano un vero e proprio corpo di polizia che i vescovi di Alessandria usavano per mantenere nelle città il loro ordine. Durante una manifestazione pubblica, uno di questi parabolani colpì Oreste sulla testa con una pietra. I cittadini di Alessandria accorsero in difesa del prefetto, dispersero i parabolani e catturarono il parabolano che aveva ferito Oreste, portandolo da quest’ultimo. Nel corso del processo pubblico, il parabolano fu torturato fino a morire. Ma la sua morte, in realtà, per quanto sconsiderata e ingiusta, non aveva nulla a che vedere con la religione.
Tuttavia, Cirillo sfruttò questo episodio elevando il parabolano al rango di martire, dicendo che era morto per difendere la fede cristiana. Ipazia collaborava con Oreste. Il vescovo Cirillo e i suoi collaboratori sfruttarono dunque, abilmente, i conflitti sociali tra le diverse etnie presenti in città e, dopo aver cacciato gli ebrei, iniziarono le persecuzioni ai filosofi considerati eretici.
La morte di Ipazia fu atroce. Si racconta che Cirillo, passando dinanzi alla dimora di Ipazia, vide molta gente che si accalcava davanti alla porta della casa della donna. Quando seppe che era il giorno in cui Ipazia riceveva, preso dall’invidia per la fama della donna di religione non cristiana, organizzò il suo assassinio. Alcuni documenti affermano che poiché Ipazia aveva avuto frequenti incontri con il prefetto Oreste, tra i cristiani di Alessandria si era diffusa la calunnia che fosse la filosofa ad impedire la riconciliazione tra Oreste e Cirillo. Alcuni di questi cristiani, la sequestrarono mentre stava tornando a casa e la portarono nella Chiesa nota come Cesareo, dove la uccisero orribilmente, addirittura si racconta che, mentre ancora respirava, le cavarono gli occhi. La spogliarono delle vesti, la massacrarono usando cocci aguzzi, la fecero a brandelli. I cristiani esaltarono l’operato di Cirillo perché aveva distrutto quanto restava della religione pagana in Alessandria.
Il vescovo Cirillo è stato santificato. Il papa Benedetto XVI, in una udienza generale tenuta in piazza san Pietro nell’ottobre 2007, esaltò con un lungo discorso l’operato di Cirillo come custode della religione cristiana. Un lungo discorso, nel quale Ipazia non fu affatto citata.
Dopo la morte di Ipazia non si parlò più di questa straordinaria donna per lunghissimo tempo.
Ma un esempio femminile di così chiara dedizione allo studio fino al martirio non poteva essere taciuto a lungo, così la storia di Ipazia si ritrova nella letteratura a partire dall’800. La scrittrice femminista e storica dell’arte inglese Anna Brownell Jameson (1794 – 1860) formulò l’ipotesi secondo cui vi erano alcune caratteristiche comuni tra santa Caterina d’Alessandria, secondo alcuni storici vissuta nel terzo secolo d. C., e Ipazia e quindi asserì nei suoi scritti: «C’è un fatto curioso legato alla storia di santa Caterina: che la vera martire, la sola di cui esistano dati certi, non era una cristiana, ma una pagana; e che i suoi oppressori non erano pagani tirannici ma cristiani fanatici.» Le affermazioni della Brownell Jameson mancano di fonti storiche documentate che dimostrino chiaramente che Santa Caterina e Ipazia siano la stessa persona. Questa ipotesi è tuttavia ritornata recentemente nel libro “Ipazia. La vera storia” della studiosa di storia bizantina Silvia Ronchey.
A Ipazia vengono dedicate poesie e scritti di altri autori famosi: Ipazia diventa il simbolo della libertà di pensiero femminile, martire eroica. È, insieme al padre Teone, protagonista in una delle storie a fumetti della serie di “Corto Maltese”, firmata da Hugo Pratt: “Favola di Venezia”.
È famoso il film Agorà del 2009, diretto da Alejandro Amenábar, in cui Ipazia, interpretata da Rachel Weisz, è la protagonista. Associazioni di femministe, filosofe e scienziate prendono il suo nome.
Le opere scritte da Ipazia sono andate perdute, alcune sono incorporate in pubblicazioni di altri autori e di altre si ha notizia sempre da scritti di altri autori.
La sua opera più significativa è un commento in tredici volumi all’Aritmetica di Diofanto (Il sec.), il “padre dell’algebra”, cui si devono lo studio di equazioni che sono ricordate come “le diofantee”. Nel suo commento, Ipazia sviluppò soluzioni alternative a vecchi problemi e ne formulò di nuovi che vennero inglobati in seguito nell’opera di Diofanto.
Scrisse anche un commento in otto volumi a “Le coniche di Apollonio di Pergamo” (111 sec. a.C.), un’analisi matematica delle sezioni del cono, curve che furono dimenticate fino al XVI secolo quando vennero usate per descrivere le orbite dei pianeti. In quest’opera Ipazia inserì il “Corpus astronomico”, una raccolta da lei compilata di tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti.
Ipazia fu autrice con il padre di un commento all’Almagesto di Tolomeo, opera vastissima in tredici libri che raccoglieva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’epoca, e di un’edizione riveduta e corretta degli Elementi di Euclide.
Non essendoci per Ipazia un confine netto tra scienza e filosofia non ci sono giunte nemmeno le sue opere di carattere filosofico.
Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata. Le vengono attribuite due invenzioni: un astrolabio piano e un aerometro. L’allievo di Ipazia, Sinesio, fornisce nei suoi scritti informazioni sull’astrolabio da lui fatto costruire e «concepito sulla base di quanto mi insegnò la mia veneratissima maestra […] Ipparco lo aveva intuito e fu il primo a occuparsene, ma noi, se è lecito dirlo, lo abbiamo perfezionato» mentre «lo stesso grande Tolomeo e la divina serie dei suoi successori» si erano contentati di uno strumento che servisse semplicemente da orologio notturno.
Da queste parole si deduce che i matematici e gli astronomi del tempo di Ipazia non consideravano affatto l’opera di Tolomeo l’ultima e definitiva parola in fatto di conoscenza astronomica: al contrario, essa era correttamente ritenuta una semplice ipotesi matematica. L’idea di un Tolomeo sistematore della realtà astronomica appartiene alla più tarda epoca medievale.
L’astrolabio progettato da Ipazia era formato da due dischi metallici forati, ruotanti uno sopra l’altro mediante un perno rimovibile: era utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti, in un determinato istante. Pare che mediante questo strumento Ipazia abbia addirittura risolto alcuni problemi di astronomia sferica.
Sinesio chiese anche ad Ipazia di costruirgli un densimetro, per scopi medici, durante una sua malattia: Il motivo per cui un uomo malato dovrebbe richiedere la costruzione di un densimetro ha suscitato molti dibattiti e speculazioni, ma i suggerimenti più plausibili sono che gli servisse per la produzione di qualche medicinale a base di alcol. Alla richiesta Sinesio allega una descrizione dettagliata: «un tubo cilindrico avente la forma e la misura di un flauto. In linea perpendicolare reca degli intagli, a mezzo dei quali misuriamo il peso dei liquidi. Da una delle estremità è otturato da un cono fissato strettamente al tubo, in modo che unica sia la base di entrambi. È questo il cosiddetto barillio. Quando s’immerge il tubo nell’acqua, esso rimane eretto e si ha in tal modo la possibilità di contare gli intagli, i quali danno l’indicazione del peso.» In effetti questo strumento misura la densità di un liquido. Come si legge nello scritto di Sinesio, fu progettato come un tubo sigillato avente un peso fissato ad un’estremità: a seconda di quanto questo tubo affondava in un liquido, era possibile leggerne su una scala graduata la densità.
Ci piace immaginare questa bella e intelligente giovane donna, fiera, avvolta nel suo mantello, gettato addosso, come scrive Damascio, filosofo bizantino suo biografo, innamorata degli studi che faceva, in giro per le vivaci strade della colta e raffinata Alessandria, generosa nel trasmettere le sue conoscenze a chiunque volesse ascoltarla.
E l’augurio che il suo allievo Sinesio le faceva lo immaginiamo rivolto a tutte le donne, oggi: «Tu hai sempre avuto potere. Possa tu averlo a lungo, e possa tu di questo potere fare buon uso».
Ernesta De Masi